Nell’ottobre del 2025, la Russia di Vladimir Putin si trova stretta in una morsa che sta mettendo a dura prova persino la proverbiale resilienza del sistema economico russo. Come analisti e investitori, dobbiamo guardare oltre i comunicati ufficiali del Cremlino e osservare i numeri con quello sguardo distaccato ma attento che contraddistingue chi opera sui mercati. E i numeri, in questo caso, raccontano una storia molto diversa da quella della propaganda di regime.

Il 22 ottobre scorso, l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni senza precedenti ai giganti petroliferi russi Rosneft e Lukoil, due colossi che da soli esportano circa il 45% del greggio russo e rappresentano oltre il 5% della produzione petrolifera mondiale. Non si tratta di sanzioni simboliche, quelle a cui ci eravamo abituati negli anni precedenti. Questa volta Washington ha colpito al cuore del sistema economico russo, introducendo il concetto di “sanzioni secondarie”: qualsiasi banca o azienda straniera che faciliti transazioni con queste compagnie rischia di essere tagliata fuori dal sistema finanziario occidentale e, soprattutto, dall’accesso al dollaro.

La reazione dei mercati è stata immediata e inequivocabile. Il Brent è balzato del 5% in poche ore, superando i 65 dollari al barile, mentre il WTI ha registrato un rialzo del 5,3% a 61,62 dollari. Anche il gas naturale ha visto aumenti del 2,3% ad Amsterdam. Ma quello che davvero dovrebbe interessare chi investe con uno sguardo di medio-lungo periodo non è tanto questa fiammata dei prezzi energetici, quanto il terremoto geopolitico che si sta consumando dietro le quinte.

La Cina, tradizionalmente il principale alleato economico della Russia in questa fase, ha fatto una mossa che ha lasciato Mosca sostanzialmente isolata. Le principali compagnie petrolifere statali cinesi hanno sospeso gli acquisti di greggio russo via mare. Non per ragioni ideologiche o politiche, ma per puro calcolo economico: perdere l’accesso al mercato americano e al sistema del dollaro avrebbe conseguenze catastrofiche per l’economia cinese. Questa scelta pragmatica di Pechino ci dice molto su quanto sia fragile l’asse Mosca-Pechino quando gli interessi economici reali entrano in gioco.

L’India ha seguito la stessa logica. Reliance Industries, il principale importatore indiano di petrolio russo, ha già annunciato che adatterà le proprie operazioni di raffinazione per conformarsi alle sanzioni. Trump ha persino affermato che l’India cesserà completamente le importazioni di petrolio russo. Considerando che Cina e India insieme rappresentavano circa l’85% delle esportazioni petrolifere russe nell’agosto 2025, capiamo bene la portata del problema per il Cremlino.

Ma la vera fragilità dell’economia russa emerge quando analizziamo i dati macroeconomici più recenti. La Russia è entrata in quella che tecnicamente viene definita recessione nel primo semestre del 2025, con il PIL in contrazione sequenziale sia nel primo che nel secondo trimestre. Certo, la governatrice della Banca Centrale, Elvira Nabiullina, ha cercato di minimizzare parlando di “raffreddamento” dopo una fase di “surriscaldamento”, ma i numeri raccontano una storia più preoccupante.

Il deficit di bilancio si è gonfiato drammaticamente, raggiungendo i 4,88 trilioni di rubli, circa 61,1 miliardi di dollari, pari al 2,2% del PIL. La Duma ha dovuto approvare emendamenti che portano il deficit previsto per il 2025 a 5,7 trilioni di rubli, il 2,6% del PIL. La spesa pubblica è aumentata del 20,8%, mentre le entrate hanno faticato a tenere il passo. Il ministro dell’Economia russo, Maxim Reshetnikov, ha ammesso apertamente a giugno che il paese è “sull’orlo della recessione”, una dichiarazione che ha richiesto immediate correzioni da parte del ministro delle Finanze, Anton Siluanov.

L’inflazione rimane ostinatamente alta, intorno al 9,4% a giugno secondo i dati disponibili, ben oltre l’8,2% stimato dal ministero. Per combatterla, la Banca Centrale ha mantenuto tassi d’interesse stratosferici al 20%, prima di iniziare una graduale riduzione al 18% e poi al 17% a settembre. Ma questi tassi rappresentano un cappio al collo per l’economia reale: ottenere un mutuo o finanziare un’attività produttiva diventa pressoché impossibile, con tassi per il credito al consumo che superano il 30%.

Ed è qui che si materializza il paradosso dell’economia di guerra russa. Da un lato, le fabbriche di armamenti operano a pieno regime, assorbendo il 40% degli investimenti totali e mantenendo la disoccupazione sotto il 2%. I salari sono aumentati, creando l’illusione di prosperità. Ma dall’altro lato, questa è una crescita drogata dalla spesa pubblica, non guidata dal mercato. È un’economia a due velocità: quella militare che brucia risorse a ritmi insostenibili, e quella civile che langue, strozzata dall’inflazione e dai tassi d’interesse.

German Gref, amministratore delegato di Sberbank e figura chiave dell’establishment economico russo, ha parlato senza mezzi termini di “stagnazione tecnica” e ha avvertito che i mesi di luglio e agosto 2025 mostravano “sintomi abbastanza chiari del fatto che ci stiamo avvicinando allo zero” in termini di crescita.

Sul fronte militare, la situazione non è migliore. Le forze russe hanno subito circa 1,1 milioni di perdite dal febbraio 2022, con oltre 332.000 solo nel 2025. Il rapporto tra feriti e morti è allarmante: 1,3 a 1, indicando carenze drammatiche nell’assistenza medica sul campo. L’offensiva estiva del 2025, nonostante la superiorità numerica russa che in alcune regioni era da tre a sei volte superiore a quella ucraina, ha prodotto risultati minimi: circa 5.000 chilometri quadrati conquistati dall’inizio del 2024, meno dell’1% del territorio ucraino.

Le infrastrutture energetiche russe sono state devastate dagli attacchi con droni ucraini, causando carenze di carburante e lunghe code in tutto il paese. L’Agenzia Internazionale dell’Energia prevede che queste interruzioni ostacoleranno i tassi di lavorazione delle raffinerie almeno fino alla metà del 2026.

Putin ha rifiutato categoricamente la proposta di cessate il fuoco avanzata da Trump, insistendo sul controllo completo del Donbass e mantenendo richieste massimaliste che includono il cambio di regime a Kiev, la neutralità ucraina e il ritiro della NATO. Questo atteggiamento inflessibile rivela una logica profondamente radicata nella cultura strategica russa: accettare una sconfitta o un compromesso viene percepito come una minaccia esistenziale al regime stesso.

L’incontro tra Trump e Xi Jinping del 30 ottobre in Corea del Sud rappresenta uno scenario da incubo per Putin. La possibilità di un riavvicinamento tra le due maggiori economie mondiali, mentre la Russia rimane diplomaticamente isolata, riduce drasticamente il margine di manovra del Cremlino. La Cina ha dimostrato chiaramente che, quando è costretta a scegliere, antepone l’accesso al mercato americano alla partnership con Mosca.

Dal punto di vista degli investimenti, questa situazione crea dinamiche complesse. Nel breve termine, le tensioni geopolitiche e le sanzioni al petrolio russo continueranno a sostenere i prezzi energetici, con benefici per i produttori alternativi. Tuttavia, se l’economia russa dovesse effettivamente collassare, le ripercussioni sui mercati delle materie prime e sui paesi emergenti che hanno legami economici con Mosca potrebbero essere significative.

Il rublo ha già superato la soglia psicologica dei 100 per dollaro, segnalando una perdita di fiducia nel sistema. Il National Wealth Fund russo, il fondo sovrano destinato a stabilizzare l’economia, conteneva a fine febbraio 2025 circa 3,4 trilioni di rubli, appena il 2% del PIL. Ma due terzi di queste risorse sono già stati utilizzati per finanziare la guerra.

Quello che stiamo osservando è il classico dilemma dell’escalation in condizioni di debolezza. Putin si trova nella posizione di chi ha investito troppo per ritirarsi, ma non ha abbastanza risorse per vincere. La teoria prospettica ci insegna che in queste situazioni, chi percepisce di essere già in una posizione di perdita tende ad assumere rischi ancora maggiori nel tentativo di recuperare, piuttosto che accettare una perdita certa.

La strategia russa del “escalate to de-escalate” – alzare il livello delle minacce, incluse quelle nucleari, per forzare l’avversario a concessioni – è stata impiegata ripetutamente. L’invio di Kirill Dmitriev, CEO del Russian Direct Investment Fund, sui media americani per ribadire le richieste massimaliste russe mentre si segnalava disponibilità al dialogo, è l’ennesima dimostrazione di questo approccio. Ma questa tattica funziona meglio quando si negozia da una posizione di forza, non di crescente debolezza.

Per chi investe guardando ai fondamentali macroeconomici, la Russia rappresenta oggi un caso di studio sui limiti della resilienza economica in condizioni di guerra prolungata e isolamento internazionale. L’economia ha esaurito le sue riserve manifatturiere e di manodopera. La riconversione dall’Occidente all’Oriente, dalla produzione civile a quella militare, ha generato una crescita temporanea, ma quella fase è terminata. Gli investimenti in oleodotti e infrastrutture verso la Cina sono stati completati. La spesa militare, che era cresciuta del 53% nel 2024, crescerà solo del 3,4% nel 2025.

Circa un quarto delle aziende russe intervistate dall’Unione degli Industriali e degli Imprenditori ha dichiarato che la propria situazione finanziaria è peggiorata, con il 30,8% delle imprese che ritiene che il clima imprenditoriale nel paese sia deteriorato. Nel primo trimestre del 2025, il 38,4% delle organizzazioni ha registrato un calo della domanda, una quota raddoppiata rispetto al periodo precedente.

Persino il settore agricolo, tradizionalmente forte per la Russia, sta soffrendo. Il raccolto di cereali del 2025 è stato devastato da gelate primaverili e da ondate di caldo e siccità estive. La produzione totale di cereali dovrebbe scendere a 130 milioni di tonnellate, in calo del 18% rispetto al picco del 2022. L’esportazione di cereali a luglio è stata la più bassa per quel mese dal 2008.

Gli esperti concordano sul fatto che l’efficacia delle sanzioni dipenderà dalla cooperazione globale. Se paesi come Turchia, Emirati Arabi Uniti e altri continueranno ad acquistare petrolio russo attraverso canali non ufficiali, l’impatto sarà limitato. Ma la decisione di Cina e India di ridurre drasticamente gli acquisti per paura delle sanzioni secondarie rappresenta un cambiamento fondamentale.

Secondo l’analista Edward Fishman, ex funzionario del Dipartimento di Stato che ha coordinato le politiche sanzionatorie durante l’amministrazione Obama, la vera domanda è se gli Stati Uniti saranno disposti a colpire effettivamente le banche cinesi, i trader degli Emirati o le raffinerie indiane che continuano a trattare con Rosneft e Lukoil. Le prime indicazioni suggeriscono che almeno nel breve periodo ci sarà un ritiro significativo dai rapporti con il petrolio russo.

Per concludere questa analisi, possiamo dire che Putin si trova in un vicolo cieco strategico. Continuare la guerra di logoramento non è sostenibile economicamente. Escalare ulteriormente il conflitto rischia di provocare risposte ancora più dure. Negoziare un accordo senza meccanismi che salvino la faccia minaccerebbe la sua presa sul potere. E la strategia dell'”escalate to de-escalate” mostra i suoi limiti quando la debolezza economica diventa evidente.

Per gli investitori, questo scenario richiede attenzione particolare all’evoluzione dei prezzi energetici, alle dinamiche dei mercati emergenti che hanno legami con la Russia, e alle possibili ricadute su settori come quello delle materie prime agricole, i fertilizzanti e i metalli. La volatilità rimarrà elevata, e le correlazioni tra asset potrebbero cambiare rapidamente in funzione degli sviluppi geopolitici.

Le sanzioni introdotte nell’ottobre 2025 potrebbero rappresentare l’inizio di un cambiamento nella percezione di Putin sulla sostenibilità della sua strategia. Ma la storia ci insegna che i regimi autoritari tendono a esaurire tutte le opzioni disponibili prima di accettare una sconfitta strategica. La finestra per una risoluzione favorevole si sta certamente restringendo, ma il percorso verso quella risoluzione sarà probabilmente lungo, tortuoso e costellato di rischi per i mercati globali.

Come investitori, dobbiamo prepararci a monitorare da vicino non solo i dati economici russi – che peraltro diventano sempre meno affidabili – ma soprattutto i segnali che arrivano da Pechino e Washington. Sarà il triangolo strategico Stati Uniti-Cina-Russia a determinare l’evoluzione di questa crisi, con implicazioni profonde per l’ordine economico globale e per i nostri portafogli.

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