La Guerra Delle Terre Rare: Come Gli Stati Uniti Sfidano Il Monopolio Cinese – 25 Ottobre 2025
Quando nel corso del 2025 Pechino ha stretto ulteriormente i controlli sull’esportazione delle terre rare, molti analisti hanno colto un segnale che va ben oltre la semplice ritorsione commerciale. Siamo di fronte a una vera e propria arma strategica, più subdola dei missili e altrettanto efficace dei blocchi navali. Perché mentre il petrolio può essere sostituito, trivellato altrove o razionato, le terre rare rappresentano il collo di bottiglia tecnologico del ventunesimo secolo. Senza di esse, i caccia F-35 restano a terra, le turbine eoliche si fermano e l’industria dei semiconduttori collassa.
La risposta di Washington non si è fatta attendere. L’amministrazione Trump ha mobilitato un arsenale di misure che spaziano dagli investimenti diretti nelle società minerarie ai prestiti agevolati, dalle partnership internazionali alle deregolamentazioni accelerate. Ma mentre i titoli delle società del settore hanno registrato performance stellari negli ultimi mesi, con MP Materials che segna un impressionante aumento del 435% da inizio anno e USA Rare Earth che ha triplicato il proprio valore, resta da capire se questa frenesia sia giustificata dai fondamentali o si tratti dell’ennesima bolla speculativa alimentata dalla retorica geopolitica.
La questione delle terre rare non è una novità per chi segue da tempo le dinamiche della politica estera americana. Già nel 2010, quando la Cina bloccò temporaneamente le esportazioni verso il Giappone durante una disputa territoriale sulle isole Senkaku, il mondo si rese conto della vulnerabilità occidentale. Ma quella lezione, evidentemente, non fu sufficiente a innescare cambiamenti strutturali. Per comprendere l’attuale scenario, occorre fare un passo indietro e analizzare come la Cina abbia costruito questo dominio apparentemente inespugnabile.
La strategia di Pechino è stata di una lucidità impressionante. Quando Deng Xiaoping affermò nel 1992 che il Medio Oriente ha il petrolio e la Cina ha le terre rare, non stava semplicemente facendo un’osservazione geologica. Stava delineando una visione industriale di lungo periodo che avrebbe richiesto decenni per materializzarsi. La Cina non si è limitata a estrarre minerali, operazione che pure richiede enormi quantità di capitale e tolleranza ambientale. Ha sistematicamente conquistato l’intera catena del valore, dalla miniera al magnete finito, attraverso una combinazione di investimenti statali massivi, dumping strategico e arbitraggio ambientale.
Oggi Pechino controlla circa il 70% dell’estrazione globale di terre rare, ma soprattutto detiene il 90% della capacità di raffinazione e il 93% della produzione di magneti permanenti. Questa asimmetria è fondamentale. Anche se domani gli Stati Uniti riuscissero a triplicare la propria produzione mineraria, resterebbero comunque dipendenti dalla Cina per trasformare quel minerale grezzo in componenti utilizzabili. È come possedere giacimenti petroliferi senza avere raffinerie. Ed è proprio su questo collo di bottiglia che Washington sta concentrando gli sforzi più significativi, benché con risultati ancora incerti.
L’accordo da 8,5 miliardi di dollari firmato con l’Australia nell’ottobre 2025 rappresenta la più grande partnership occidentale nel settore dei minerali critici. L’Australia possiede riserve significative e un’industria mineraria matura, ma anche Canberra soffre dello stesso problema di Washington: manca la capacità di raffinazione su larga scala. Buona parte del minerale estratto a Mountain Pass, la principale miniera americana gestita da MP Materials, finisce ancora oggi spedito in Cina per essere processato. Una contraddizione solo apparente, che riflette trent’anni di disinvestimento occidentale e migrazione delle competenze tecniche verso l’Oriente.
L’accordo con l’Ucraina, siglato nell’aprile 2025, è forse ancora più emblematico della complessità geopolitica in gioco. Kiev possiede circa il 5% delle riserve globali e ben 22 dei 34 minerali considerati critici dall’Unione Europea. Ma il 40% di queste risorse si trova nei territori occupati dalla Russia, incluse le regioni del Donbass, la Crimea e Zaporizhzhia. Washington si è assicurata un accordo al 50-50 sui ricavi dei futuri progetti, ma la produzione effettiva resta una prospettiva remota. Nel frattempo, Mosca consolida il controllo su circa 13,5 trilioni di dollari di minerali strategici ucraini, un bottino che potrebbe alterare significativamente gli equilibri globali se venisse mai sfruttato sistematicamente.
Anche l’Africa è diventata un campo di battaglia per i minerali critici. La Development Finance Corporation americana ha approvato investimenti in Angola, Sud Africa e Malawi, con l’obiettivo di portare il continente a fornire il 9-10% della produzione globale entro il 2030. Ma qui Washington si scontra con la presenza pervasiva degli investimenti cinesi, che controllano già il 97% dei progetti di litio africani. La Cina ha speso decenni a costruire relazioni politiche ed economiche nel continente, mentre l’Occidente ha oscillato tra indifferenza e interventi militari maldestri. Recuperare questo terreno perduto richiederà ben più di qualche progetto minerario ben finanziato.
Sul fronte domestico, l’amministrazione Trump ha emanato nel marzo 2025 un ordine esecutivo per accelerare le autorizzazioni minerarie, tradizionalmente un percorso a ostacoli negli Stati Uniti che può richiedere fino a 29 anni per sviluppare una nuova miniera. I crediti fiscali del 10% per la produzione di magneti al neodimio-ferro-boro e i 450 milioni di dollari del Defense Production Act rappresentano incentivi significativi. Ma anche nel migliore degli scenari, gli esperti stimano che serviranno almeno 10-15 anni per costruire una capacità di raffinazione competitiva. Un’eternità , in termini geopolitici.
Questa urgenza temporale spiega l’intervento diretto del governo nel capitale delle società minerarie. Il Dipartimento della Difesa ha acquisito il 15% di MP Materials per 400 milioni di dollari, il 5% di Lithium Americas e il 10% di Trilogy Metals. Questi investimenti hanno fatto schizzare i titoli in borsa, con aumenti del 200-400% che hanno attirato l’attenzione di investitori retail e istituzionali. JPMorgan Chase ha annunciato una Security and Resiliency Initiative da 1.500 miliardi di dollari in dieci anni, di cui fino a 10 miliardi destinati a investimenti azionari diretti in società considerate strategiche per la sicurezza nazionale.
Proprio questa euforia di mercato solleva interrogativi legittimi per chi valuta opportunità di investimento. Le società del settore hanno capitalizzazioni ancora modeste rispetto ai giganti tecnologici, il che rende gli investimenti istituzionali potenzialmente dirompenti per i prezzi. USA Rare Earth, con una capitalizzazione di circa 3,7 miliardi di dollari, ha triplicato il proprio valore nel 2025, ma non genera ancora ricavi significativi. Il suo valore si basa interamente sulla promessa di futuri contratti governativi e sulla messa in produzione di impianti che, secondo i piani, dovrebbero diventare operativi nella prima metà del 2026.
Gli analisti di Wall Street, cinque dei quali hanno assegnato a USA Rare Earth un rating Buy, sottolineano la convergenza di più catalizzatori: l’impegno governativo bipartisan sulla sicurezza delle forniture, la credibilità crescente dei progetti grazie a nomine manageriali di alto profilo, e la recente acquisizione di Less Common Metals per 217 milioni di dollari, che conferisce alla società capacità di riciclo e lavorazione di materiali critici. Ma come ha osservato David Merriman di Project Blue, molti sviluppatori di terre rare stanno cavalcando l’onda dell’euforia senza avere ancora un business model provato.
La differenza fondamentale tra una società come MP Materials, che già produce e vende minerali, e i numerosi aspiranti produttori che popolano il mercato è sostanziale. MP Materials ha beneficiato di un pacchetto di finanziamenti da un miliardo di dollari coordinato da JPMorgan e Goldman Sachs per costruire il suo secondo impianto di produzione di magneti, il 10X Facility, che dovrebbe diventare operativo nel 2028 e portare la capacità totale americana a 10.000 tonnellate metriche annue. Un traguardo ambizioso, ma ancora lontano dalle centinaia di migliaia di tonnellate prodotte annualmente dalla Cina.
La prospettiva di lungo periodo resta comunque favorevole per il settore, al di là delle oscillazioni speculative di breve termine. La domanda di terre rare è destinata a crescere esponenzialmente con l’elettrificazione dei trasporti e la transizione energetica. Un singolo motore elettrico richiede circa un chilogrammo di neodimio e disprosio, mentre una turbina eolica ne può contenere fino a 600 chilogrammi. Con milioni di veicoli elettrici previsti nei prossimi anni e l’espansione dell’eolico offshore, la pressione sulla catena di fornitura è destinata ad aumentare.
Ma qui emerge il paradosso centrale di questa corsa alle terre rare. La transizione verde, che dovrebbe liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili, ci sta rendendo dipendenti da un’altra risorsa concentrata geograficamente e politicamente. Abbiamo semplicemente sostituito il cartello dell’OPEC con il quasi-monopolio cinese sui minerali critici. E a differenza del petrolio, le terre rare non possono essere facilmente sostituite o diversificate attraverso innovazioni tecnologiche a breve termine. Le loro proprietà magnetiche ed elettroniche sono uniche e insostituibili nelle applicazioni ad alte prestazioni.
Pechino è pienamente consapevole di questa leva strategica e la sta usando con crescente assertività . Le restrizioni all’esportazione imposte nell’aprile 2025, che hanno colpito sette elementi delle terre rare inclusi samario, terbio e disprosio, rappresentano solo l’ultimo capitolo di una storia che risale al 2010. Ma questa volta la portata è più ampia: i controlli si estendono non solo ai minerali grezzi, ma anche ai prodotti finiti che incorporano tecnologie cinesi di estrazione, raffinazione o produzione di magneti. Una mossa che rende ancora più difficile aggirare la dipendenza attraverso il cosiddetto lavaggio di origine, ovvero l’importazione di terre rare cinesi tramite paesi terzi come Thailandia e Messico.
Una valutazione interna del Pentagono circolata nel giugno 2025 ha rivelato che in caso di interruzione completa delle forniture cinesi, alcune linee di produzione militare potrebbero chiudersi entro 90 giorni. Le scorte strategiche americane di terre rare per sistemi d’arma critici come i caccia F-35 e i missili Tomahawk sono sufficienti per appena due-sei mesi di produzione al ritmo attuale. Alcune aziende del settore difesa dispongono di riserve per soli 40-60 giorni. Numeri che fanno riflettere sulla reale autonomia strategica degli Stati Uniti.
Eppure, nonostante questa vulnerabilità , molti analisti ritengono improbabile che la Cina arrivi a un’interruzione totale delle forniture. I costi economici sarebbero considerevoli anche per Pechino. L’industria delle terre rare cinese dipende fortemente dalle esportazioni verso i mercati occidentali, e una chiusura prolungata rischierebbe di accelerare permanentemente la diversificazione delle catene di fornitura, erodendo un vantaggio costruito in decenni. Inoltre, la Cina stessa affronta sfide economiche strutturali: crescita rallentata, crisi immobiliare e disoccupazione giovanile. Una guerra commerciale totale potrebbe destabilizzare internamente il Partito Comunista.
La strategia cinese sembra piuttosto orientata all’uso delle terre rare come leva negoziale, un’arma da brandire nei momenti di tensione per ottenere concessioni su altri fronti. I precedenti storici lo confermano: dopo le minacce del 2019, durante il primo mandato di Trump, e le restrizioni del 2010 contro il Giappone, Pechino ha sempre eventualmente allentato i controlli una volta raggiunto l’obiettivo politico. Anche in questo caso, gli analisti interpretano le mosse cinesi come tattiche in vista di futuri negoziati tra Trump e Xi Jinping, piuttosto che come un’escalation irreversibile.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, non sono privi di contromosse. Washington controlla l’accesso alle tecnologie di produzione di semiconduttori avanzati, all’intelligenza artificiale e alle apparecchiature di litografia di cui la Cina ha disperatamente bisogno per modernizzare la propria economia e il proprio complesso militare-industriale. Le sanzioni su chip ad alte prestazioni, già in vigore, rappresentano una forma di pressione altrettanto efficace. E a differenza della Cina, gli Stati Uniti possono contare su una rete di alleati pronti a coordinare risposte collettive: Australia, Giappone, Corea del Sud e, almeno parzialmente, l’Unione Europea.
Questa interdipendenza asimmetrica, tuttavia, non elimina i rischi di breve periodo. La finestra temporale più pericolosa è proprio quella attuale, quando la consapevolezza della vulnerabilità occidentale è ormai diffusa, ma le soluzioni strutturali sono ancora lontane almeno un decennio. È in questa fase che Pechino potrebbe essere tentata di premere il proprio vantaggio, specialmente se percepisce che la determinazione occidentale vacilla o che le tensioni su Taiwan o Taiwan Strait raggiungono un punto critico.
Per gli investitori, questo scenario geopolitico complesso si traduce in opportunità e rischi in egual misura. Le società del settore terre rare stanno beneficiando di un sostegno governativo senza precedenti e di fondamentali di lungo periodo solidi, legati alla crescita inesorabile della domanda. Ma le valutazioni attuali, gonfiate dall’euforia speculativa e dalle aspettative di contratti governativi che potrebbero materializzarsi o meno, richiedono cautela. La distinzione tra operatori consolidati con produzione effettiva e aspiranti produttori con progetti ancora sulla carta diventerà cruciale quando l’entusiasmo iniziale si scontrerà con la realtà operativa.
Lynas Rare Earths, l’unico importante produttore di terre rare al di fuori della Cina, con una produzione annua di 16.000-19.000 tonnellate metriche, rappresenta un benchmark più affidabile rispetto a molti dei nuovi entranti. L’azienda australiana ha già attraversato cicli di mercato, affrontato sfide di permitting e costruito relazioni con clienti occidentali. Il suo impianto per terre rare pesanti in Texas, benché ritardato da questioni autorizzative, conferisce credibilità ai piani di espansione. Eppure, anche Lynas produce una frazione minuscola rispetto alla scala cinese, evidenziando quanto sia ardua la sfida di costruire un’industria competitiva da zero.
Il progetto brasiliano di Serra Verde, identificato come prioritario dalla Minerals Security Partnership, illustra perfettamente il dilemma occidentale. Nonostante gli sforzi per diversificare le forniture, il minerale estratto in Brasile è già vincolato contrattualmente a essere raffinato in Cina, semplicemente perché non esistono alternative occidentali economicamente viabili. Fino a quando non verrà costruita capacità di raffinazione fuori dalla Cina, questo schema si ripeterà , perpetuando la dipendenza che Washington cerca disperatamente di spezzare.
La costruzione di questa capacità richiede non solo capitale, ma anche competenze tecniche, infrastrutture energetiche robuste e tolleranza ambientale. Le operazioni di raffinazione delle terre rare consumano enormi quantità di elettricità , circa il 15% del consumo globale del settore minerario, e producono scorie radioattive, metalli pesanti e acque reflue acide. Per ogni tonnellata di terre rare prodotte, si generano circa 2.000 tonnellate di rifiuti tossici. La Cina ha accettato questo compromesso ambientale per decenni, operando impianti che in Occidente non otterrebbero mai le autorizzazioni necessarie. Replicare quella capacità industriale richiedendo al contempo standard ambientali rigorosi rappresenta una quadratura del cerchio tecnicamente complessa e politicamente delicata.
Le proiezioni degli esperti convergono su una tempistica di almeno 10-15 anni per costruire una catena di fornitura occidentale significativa. Durante questo periodo, la vulnerabilità strategica persiste e la Cina mantiene il potere di influenzare prezzi, disponibilità e termini commerciali. Per gli investitori con un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, questo scenario suggerisce una strategia prudente: esposizione selettiva a produttori già operativi con contratti governativi confermati, diversificazione attraverso fornitori di tecnologie di riciclo e separazione, e attenzione costante agli sviluppi geopolitici che potrebbero alterare rapidamente le dinamiche di mercato.
Il governo americano sta cercando di mitigare il rischio attraverso meccanismi innovativi come i prezzi minimi garantiti per le terre rare, simili ai sussidi agricoli, che proteggerebbero i produttori nazionali dalle tattiche di flooding cinesi. Pechino ha infatti utilizzato ripetutamente questa strategia negli anni Novanta e Duemila, inondando i mercati con terre rare a basso costo per far fallire i concorrenti occidentali, per poi rialzare i prezzi una volta consolidata la propria posizione dominante. I prezzi minimi garantiti, se implementati, offrirebbero stabilità ai produttori americani, ma rappresentano anche una forma di protezionismo che potrebbe innescare ulteriori ritorsioni commerciali.
La creazione di una riserva strategica di minerali critici, annunciata dall’amministrazione Trump con uno stanziamento iniziale di un miliardo di dollari, rappresenta un’altra misura di mitigazione del rischio. Analogamente alla Strategic Petroleum Reserve per il petrolio, queste scorte fornirebbero un cuscinetto temporale in caso di interruzioni delle forniture. Ma a differenza del petrolio, che può essere stoccato in grandi quantità a costi relativamente bassi, molte terre rare si degradano o richiedono condizioni di conservazione particolari, complicando la gestione di riserve strategiche a lungo termine.
Guardando oltre l’immediato, la vera partita si gioca sulla ricerca e sviluppo di alternative tecnologiche. Esistono programmi di ricerca per sviluppare magneti che utilizzino meno o nessuna terra rara pesante, sostituendo elementi critici come il disprosio con materiali più abbondanti. Alcune startup stanno esplorando tecniche di riciclo avanzate che potrebbero recuperare terre rare dai dispositivi elettronici dismessi, creando un’economia circolare che ridurrebbe la dipendenza dall’estrazione primaria. Tuttavia, queste soluzioni sono ancora nelle fasi iniziali e non rappresentano risposte immediate alla crisi attuale.
L’insegnamento fondamentale di questa vicenda riguarda la visione strategica di lungo periodo. La Cina ha riconosciuto il valore delle terre rare quando ancora venivano considerate commodities di nicchia e ha investito decenni nella costruzione di un dominio industriale che oggi conferisce a Pechino un’influenza geopolitica enorme. L’Occidente, distratto da profitti trimestrali e cicli elettorali brevi, ha cesso terreno strategico che ora tenta faticosamente di recuperare. Questa miopia ha un costo, misurato in centinaia di miliardi di dollari di investimenti necessari e in una vulnerabilità strategica che persisterà per almeno una generazione.
Per chi opera sui mercati finanziari, la narrativa delle terre rare si inserisce in un contesto più ampio di de-globalizzazione e ri-nazionalizzazione delle catene di fornitura strategiche. La pandemia di COVID-19 aveva già esposto le fragilità delle catene di fornitura just-in-time distribuite globalmente. Le tensioni geopolitiche crescenti tra Stati Uniti e Cina stanno accelerando un processo di friend-shoring, ovvero lo spostamento della produzione verso paesi alleati politicamente affidabili, anche a costi economici superiori. Le terre rare rappresentano forse l’esempio più drammatico di questa tendenza, ma lo stesso schema si ripete nei semiconduttori, nelle batterie per veicoli elettrici e in numerosi altri settori strategici.
Questo riassetto strutturale dell’economia globale creerà vincitori e vinti. Le società minerarie occidentali, a lungo considerate investimenti marginali e ciclici, stanno acquisendo una rilevanza strategica che si riflette già nelle valutazioni di mercato. I paesi ricchi di risorse naturali ma politicamente allineati con l’Occidente, come Australia e Canada, vedono crescere la loro importanza geopolitica. Al contrario, le nazioni che hanno costruito la propria prosperità come anelli di congiunzione nelle catene di fornitura globalizzate potrebbero trovarsi marginalizzate in un mondo più frammentato e bipolare.
La domanda che resta aperta è se la Cina userà la propria leva sulle terre rare come strumento di coercizione o come moneta di scambio negoziale. I precedenti storici suggeriscono che Pechino preferisce la seconda opzione, riconoscendo che una guerra economica totale danneggerebbe entrambe le parti e rischierebbe di accelerare irreversibilmente il disaccoppiamento delle economie americana e cinese. Ma la storia è piena di calcoli errati e di escalation involontarie. La gestione prudente di questa interdipendenza asimmetrica richiederà diplomazia sofisticata e capacità di autocontrollo da entrambe le parti, qualità che purtroppo scarseggiano nel clima politico attuale.
La corsa alle terre rare rappresenta molto più di una semplice disputa commerciale o di un’opportunità di investimento settoriale. È l’emblema di una transizione storica verso un nuovo ordine mondiale multipolare, dove il controllo delle risorse strategiche conferisce potere tanto quanto la superiorità militare o finanziaria. Per gli investitori attenti alla macroeconomia e alla geopolitica, comprendere queste dinamiche di lungo periodo è essenziale per navigare mercati che saranno sempre più influenzati da considerazioni di sicurezza nazionale piuttosto che da pure logiche di mercato. La posta in gioco è alta, e la partita è appena iniziata.
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